mercoledì 15 marzo 2006

RIFLESSIONI SUL 68 E I SUCCESSIVI (GIORN.LOCALE)

Alessandro Pagliaro mi sollecita da tempo di fare una riflessione sugli anni del ’68.
Egli ha già ricordato molti personaggi che in quel periodo soggiornavano o facevano attività politica nella nostra città, ricordando Lou Castel e qualche altro personaggio di spicco. Molti ne mancano nell’elenco, paolani e non. Fra questi ultimi possiamo ricordare che soggiornava spesso da queste parti anche il regista Marco Bellocchio: Era affascinato ed estasiato del lavoro organizzativo che veniva svolto nelle contrade di Cetraro, grazie soprattutto all’impegno notevole di Peppiniello e Celestino, coordinati dall’infaticabile Ciccio Meoni, fonte inesauribile , a quei tempi, delle barzellette che facevano ridere a crepapelle Marco Bellocchio, quando la sera cenavamo nelle trattorie che lo stesso apprezzava molto. Il clima e il contesto in cui tutto ciò avveniva era abbastanza surreale, la causa marxista-leninista era sposata, assieme a molti proletari, da figli di papà benestanti, pronti a spogliarsi di tutti i loro averi per conferirli nel patrimonio collettivo, da artisti, registi, intellettuali, studenti universitari, che trovavano esaltante la vita in comune e, forse, cercavano esperienze nuove, inesplorate, come poteva essere l’esperimento di trapiantare nelle contrade di Cetraro l’organizzazione e la vita contadina appresa dal “Rapporto da un villaggio cinese”, scritto da un autore americano.
Personalmente venivo dall’intensa e mai dimenticata militanza attiva nel PSIUP, dove, alla scuola di Lelio Basso, Vittorio Foa, Lucio Libertini, etc, avevo praticato e rafforzato le convinzioni che stanno alla base dei grandi principi che dominano gli ideali socialisti per attuare un modello organizzativo mondiale che preveda l’emancipazione di tutti i popoli della terra, la fine degli stridenti e insopportabili squilibri economici e sociali che interessano gran parte dell’umanità, a vantaggio di pochi eletti, ma avevo anche interiorizzato a fondo il grande insegnamento di Lenin che l’estremismo è la malattia infantile del comunismo.
Questi due aspetti, molto presenti nella mia personalità, hanno fatto sì che con il movimento dei marxisti-leninisti io avessi un rapporto dialettico conflittuale; ci vivevo insieme, mettevo la mia 850 a disposizione per andare nelle contrade di Cetraro, condividevo la parte ideale della loro impostazione, ma rifiutavo l’estremismo parolaio, soprattutto quello che io consideravo il ”velleitarismo”, come quello di far cadere il “Governo Colombo, tasse e piombo”, con la proclamazione di uno sciopero generale, obiettivo che richiede decenni di organizzazione e di affermazione tra le masse.
Ciò detto, cerchiamo di incominciare ad analizzare quali effetti siano stati prodotti da questa impostazione e da moltissimi altri eventi verificatisi dopo gli anni del ’68.
L’estremismo parolaio e il velleitarismo dei vari movimenti sorti in quegli anni, quello tragico incomprensibile e assurdo delle Brigate Rosse più tardi, il fatto che molti avessero aderito all’idea socialista senza neanche rendersi conto di cosa ciò volesse dire, il tradimento o l’opportunismo della gran parte dei militanti e dei capi di quei movimenti, moltissimi dei quali si sono addirittura “berlusconizzati”, la caduta dei banditi che si erano impadroniti del potere nei paesi del cosiddetto comunismo reale e la rovinosa fine dei loro assurdi regimi, hanno fatto si che il “comunismo” venisse in automatico accostato a tutto ciò e quindi che anche i grandi ideali di una società giusta ed equa, che costituiscono l’asse portante della filosofia socialista, venissero a mancare proprio nel momento in cui la teoria del socialismo e la sua connotazione etica rappresenta l’unica vera insostituibile alternativa alla tragica realtà verso cui ci sta conducendo l’evoluzione della teoria capitalistica, verosimilmente orientata verso l’organizzazione della “guerra preventiva”.
Vediamo, a questo punto, quanto sia attuale l’affermazione dell’idea socialista della società, oggi, che al solo parlarne sembra di bestemmiare e di essere un untore di manzoniana memoria.
Ai suoi tempi, Marx non poteva prevedere evidentemente che l’evoluzione del capitalismo volgesse verso lo sviluppo dell’innovazione tecnologica, per cui questa, e non già il socialismo, è diventata l’antitesi alla tesi dello sviluppo industriale.
Solo che tra tesi e antitesi esiste una differenza abissale, un contrasto insanabile e verosimilmente irriducibile e irreversibile. Nella lunga fase dello sviluppo industriale era vero e scontato che esso portasse, con il suo allargamento ed il suo potenziamento, alla creazione di nuove opportunità e, in definitiva, alla creazione di numerose possibilità di occupazione, tali da assorbire le grandi migrazioni dal mondo agrario. Con l’avvento dell’era tecnologica è vero esattamente il contrario, e ciò costituisce il problema insolubile del capitalismo. Assieme alla classe operaia sta sparendo quella degli industriali, destinati ad essere inglobati velocemente dalla ristrettissima oligarchia finanziaria, nel cui mani si concentrerà tra non molto l’intera ricchezza del pianeta e che consentirà di gestire tutte le attività schiacciando qualche bottone. All’alba del terzo millennio molti si sono svegliati ed hanno scoperto che lo sviluppo dell’industria dell’automobile non poteva durare in eterno; patetici appaiono, al riguardo, i tentativi e le risorse che si stanno sprecando per salvare l’industria nazionale, ossia la FIAT, come se il suo destino non fosse irreversibilmente segnato.
Sono passati circa 8 anni da quando Jeremy Rifkin scrisse il suo capolavoro su “LA FINE DEL LAVORO”.
Da allora ad oggi l’espulsione dei lavoratori dal mondo produttivo non si contano che a decine di milioni. Vediamo qualche aggiornamento fornito dallo stesso autore.
“Solo pochi anni fa industria e governo degli USA sostennero di aver sconfitto la disoccupazione”, ma “nonostante il più forte incremento della produttività dal 1950, negli USA un milione di persone sono uscite per sempre dal mercato del lavoro” (nel solo 2002). “La produttività sta crescendo rapidamente e a ogni suo incremento corrisponde un’ondata di licenziamenti”. Qualche mese fa l’Alliance Capital Management ha pubblicato i risultati di un’inchiesta condotta nei 20 paesi più industrializzati del mondo, con il risultato: “tra il 1995 e il 2002 sono andati perduti 31 milioni di posti di lavoro, con un costante declino di anno in anno e in qualsiasi regione del mondo. Nello stesso periodo la produttività industriale è aumentata del 4,3% in America e del 30% su scala internazionale. Grazie a questa incredibile crescita, si sono potuti produrre più beni con meno manodopera”.
Per capire tale apparente contraddizione, ma che rappresenta l’essenza e lo scopo finale dell’oligarchia finanziaria mondiale, bisogna risalire ad un’altra accuratissima inchiesta condotta sei-sette anni fa da una società di ricerche americana, la quale accertò che “mentre fino agli anni ’70, l’investimento di un miliardo di dollari creava un milione di nuovi posti di lavoro, negli anni ’90 lo stesso investimento creava 500 mila disoccupati”.
Questa è la chiave di lettura unica e illuminante per capire tutto ciò che ci sta succedendo intorno.
Perché, al di là delle statistiche più o meno ufficiali, i fenomeni sono quanto mai evidenti ad occhio nudo. Prendiamo ad esempio il nostro paese. Poste, Ferrovie, Scuola, Banche, hanno quasi dimezzato i loro organici; Telecom, Enel, Italgas hanno smantellato tutte le organizzazioni periferiche e i loro addetti,naturalmente, sostituendoli con dei dischi parlanti da autentico stress;
Sulle autostrade non ci sono più i casellanti, tra poco elimineranno le cassiere nei Supermarket, grandissima parte degli intermediari non esistono più; dei dodicimila nuovi tipi di lavoro, prefigurati da Bettino nell’84 ne sono stati creati meno di cento, e la maggior parte spazzati via prima ancora di affermarsi. Chi vuole arrangiare qualcosa di questi tempi deve accettare tutte le precarietà della grande riforma Biagi. Figuriamoci con tali sistemi come si potrà sanare la Previdenza di domani, di cui stupidamente discettono tanto. Quando scomparirà la generazione degli attuali pensionati, che sono gli unici a mantenere figli e nipoti, dovranno sforzare le meningi per rastrellare qualche sussidio di sostentamento, altro che Previdenza per il futuro.
Qualcuno potrebbe obiettarmi, ma allora va tutto male? No. Questo non è vero.
L’UNICREDIT ha realizzato nel 2003 una performance sulla massa intermediata pari a circa 10 miliardi di euro e un utile netto di circa 2 miliardi, LE GENERALI sono attestati su valori dimezzati, che per chi non riuscisse a tradurre subito diciamo che rappresentano rispettivamente 20 mila miliardi, 4 mila miliardi e 2 mila miliardi di vecchie lire.

Nessun commento:

Posta un commento