Vorrei intervenire, se ciò è consentito anche ad un comune mortale che non ha la notorietà dei due illustri Professori che hanno pubblicato diagnosi e prognosi sulla grave, direi drammatica, crisi economico-finanziaria del nostro Paese, ma che ha qualche buona informazione di base per percorso di studi e qualche approfondimento non del tutto trascurabile.Uri Dadush e Moises Naim hanno svolto un’analisi sulla situazione italiana sicuramente di alto livello, che è da accogliere pienamente per quanto riguarda il grido di allarme che essi lanciano sulla reale situazione italiana e l’invito a non sottovalutare il pericolo, molto plausibile, che il default possa avvenire da un momento all’altro. Assolutamente condivisibile il primo dei pericoli che essi denunciano, la voragine del debito pubblico. Sul resto e sulla prognosi, viceversa, c’è molto da obiettare.
Del tutto fuorviante appare l’osservazione che una delle cause dell’aggravarsi della crisi vada attribuita all’alto costo del lavoro in Italia rispetto agli altri paesi nostri competitors per le seguenti osservazioni:
1)Non solo in Italia, ma nel mondo, l’aumento della produttività non ha mai portato ad un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, come ha dimostrato Rifkin qualche fa, che l’Espresso ha pubblicato; ad un aumento di produttività negli ultimi dieci anni, prima della crisi, ha fatto riscontro l’espulsione di 31 milioni di lavoratori a livello mondiale;
2) L’affermazione dei due autori è in pieno contrasto con quanto vanno sostenendo da tempo i sindacati italiani (tutti) in merito alla perdita di potere di acquisto, consistente, dei salari italiani rispetto all’Europa;
3) Ed infine, sembra smentita in pieno dai dati contenuti nella Tabella pubblicata all’interno dello stesso articolo, dove il costo del lavoro (al lordo) italiano viene dopo quello di altri 11 paesi competitors e il raffronto si acutizza se vengono presi in esame i salari netti, dimezzati dal prelievo fiscale e contributivo.
Da queste osservazioni discende la conseguenza logica e coerente che la ricetta per sanare l’economia e lo stesso debito pubblico non può certo essere quella di tagliare i salari del 6%.
A parte ogni considerazione sulla effettiva praticabilità di una simile diabolica misura che verrebbe a colpire ancora una volta e sempre lavoratori, che in tale evenienza avrebbero il sostegno deciso dei sindacati, il presunto vantaggio che ne dovrebbe scaturire in termini incentivanti per l’economia, sarebbe vanificato , e produrrebbe un contraccolpo opposto, poiché provocherebbe una fase di diminuzione dei consumi e quindi innescherebbe un ciclo depressivo dell’economia.
Sulla base di queste considerazione, la stessa analisi sul debito pubblico diventa parziale ed incompleta, per certi aspetti solo accennata.
L’Italia, da circa un trentennio, si trova stretta in una morsa soffocante per via dell’immenso, insostenibile stock del debito e dei conseguenti costi che genera. Nonostante i venti anni di manovre attuate con le Finanziarie annuali, oggi il debito non solo non è diminuito bensì aumentato, con il risultato che tutte le risorse aggiuntive sottratte alla massa dei cittadini sono finiti inghiottiti dalla voragine del debito, con l’ulteriore arricchimento dei possessori dei titoli di stato e un latente andamento depressivo dell’economia, con il ristagno pauroso in tutti i settori; dalla scuola alle infrastrutture, dalla sanità alla giustizia, dalle compagnie aeree alle ferrovie, e l’elenco è lungo, non si salva nessuno.
L’infernale intreccio stock del debito, oneri da esso scaturenti, riflessi sull’economia e sulla finanza, dice chiaramente che non esistono molti spiragli per uscire dalla crisi. La morsa, di cui parlavo, è presto detta : se l’economia continua a ristagnare, il livello dei tassi si mantiene basso, ma in tal caso non ci può essere crescita; se c’è quest’ultima, il livello dei tassi inesorabilmente cresce e può benissimo provocare quel default alla greca paventato dai due economisti.
Come se ne può uscire?
Con una manovra combinata tra prelievo straordinario sui patrimoni di quel 10% di cittadini che possiede il 50% della ricchezza finanziaria (vedi relazione Bankitalia) e una contestuale revisione dei meccanismi che regolano i titoli di stato. Sul mio Blog ho pubblicato una proposta concreta e specifica sull’argomento, rifacendomi anche alla Relazione che il Direttore del Debito Pubblico ha presentato al Parlamento, qualche anno fa, sugli innumerevoli provvedimenti adottati al riguardo dall’unità d’Italia fino al 1945, allorquando il debito è stato praticamente per effetto dell’inflazione bellica.
E forse non è una semplice coincidenza la circostanza rilevante che la ricostruzione post-bellica, prima, e il miracolo economico italiano,dopo, siano avvenuti in un contesto di assenza di debito pubblico e con avanzi primari fino al 1965.
A questo punto chiedo all’Espresso, il piu’autorevole settimanale diffuso in Italia, aperto al dialogo al confronto all’approfondimento delle tematiche importanti, perché mai una simile proposta non possa essere portata all’attenzione e al dibattito tra i lettori?
Almeno un appoggio, piu’ che autorevole, da parte dell’azionista del settimanale, Ing. De Benedetti, lo dovrei raccogliere, dal momento che egli ha lanciato l’idea di una imposta straordinaria sui patrimoni dalle colonne del “sole 24-ore, nello scorso mese di settembre, sulla base di un’analisi e di argomentazioni che coincidono all’unisono con quelle da me sviluppate nell’opuscolo pubblicato in gennaio 2007 “Perché urge la Patrimoniale” . Francesco Calvano
giovedì 29 aprile 2010
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